Prefazione di Stefano Cingolani

Prefazione di Stefano Cingolani

“Questa sconfinata regione, la regione del rusco, del boulot, del job, insomma del lavoro quotidiano, è meno nota dell’Antartide, e per un triste e misterioso fenomeno avviene che ne parlano di più e con più clamore, proprio coloro che meno l’hanno percorsa”. Primo Levi l’ha esplorata a fondo e nel suo romanzo, “La chiave a stella”, pubblicato nel 1978, l’ha rappresentata in un modo che allora sembrò controcorrente, a cavallo tra elegia ed elogio di valori universali. Anche il protagonista, l’eroe di questa sua inusuale epica, era diverso dallo stereotipo del lavoratore allora prevalente nel dibattito pubblico, sui giornali, alla tv. L’immagine corrente, semmai, era quella di Charlot in Tempi Moderni, il vagabondo senza mestiere e dai mille lavoretti, la figura perfetta per il paradigma fordista che ha dominato il secolo americano, travolto dagli ingranaggi della linea di montaggio, frantumato da una mansione troppo stupida per essere umana, con quei movimenti sempre uguali a un ritmo sempre più veloce, quando il lavoro a catena diventa la catena del lavoro. Oggi il mondo di Charlot è al tramonto mentre quello di Primo Levi continua a riproporsi con tutta la sua forza e la sua unicità, con tutta la pregnanza di ciò che non potrà mai essere rimpiazzato da una macchina.
    
Libertino Faussone detto Tino (si sarebbe chiamato Libero se l’ufficiale dell’anagrafe fascista lo avesse consentito, nota Primo Levi) ama il proprio mestiere dal quale si sente realizzato e pensa “al Padreterno quando ha fatto il mondo” mentre issa la sua piattaforma nel mare bigio davanti alle coste dell’Alasca (la chiama così con la c al posto dalla k). Il montatore piemontese gira il pianeta per costruire macchine ai confini della realtà, gru, ponti, dighe, “con la chiave a stella appesa alla vita, perché quella è per noi come la spada per i cavalieri di una volta”. È l’immagine dell’ingegno e della creatività portata in tutto il mondo. Se Charlot trova negli Stati Uniti, dove trionfa l’industria di massa, il suo ambiente tipico, Faussone è il “brait gai” italiano (come diceva) chiamato nei posti più sperduti, nel fango del basso Volga, nell’India rovente in preda ai monsoni o nel gelido Nord America, per interventi impossibili perché conosce fino in fondo e ama quel che fa.

Non è chiaro chi abbia inventato la chiave a stella; persino quella comunemente conosciuta come inglese in realtà dovrebbe essere chiamata americana, ma forse è stata introdotta per la prima volta da uno svedese. Paradossi di un lavoro industriale che è opera collettiva, frutto di continue innovazioni, di adattamenti, di metamorfosi senza soluzione di continuità.
È diventato senso comune affermare che la rivoluzione industriale sia nata nelle filande inglesi di Manchester quando, poco dopo il 1770, è arrivata Jenny, in italiano la Giannetta, la macchina filatrice intermittente a fusi multipli, la madre di tutte le innovazioni ben oltre la sola industria tessile. Ma la produzione di merci a mezzo di merci, per espandersi e trasformare l’intera società aveva bisogno di strade, di ponti, di ferrovie, di dighe, di centrali elettriche, di scavare pozzi nei deserti e tunnel nel ventre delle montagne: le infrastrutture dello sviluppo e della modernità, le arterie e il sistema nervoso del corpo economico e sociale.
Questo è il mondo di un lavoro tutto particolare nel quale lo sforzo, la fatica, l’ingegno s’accompagnano al “piacere di veder crescere la tua creatura, piastra su piastra, bullone dopo bullone, solida, necessaria, simmetrica e adatta allo scopo, e dopo finita la riguardi e pensi che forse servirà a qualcuno che tu non conosci e non ti conosce”. Una epopea retorica? Nient’affatto, ci sono i fallimenti, le durezze, i pericoli, quando spesso è in gioco persino la vita.

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